Singapore
- Tommi
- 26 ago
- Tempo di lettura: 4 min
📍 Location: Singapore

La nostra avventura in Giappone volge ad una conclusione. Ci sono molti ricordi e un po' di tristezza nel partire: ci mancherà un po' tutto di questo posto così unico. La promessa è quella di tornare!
Our adventure in Japan is coming to an end. We have many memories and feel a little sad to be leaving: we will miss everything about this unique place. We promise to return!
Ci siamo. Ultimo giorno in questa terra meravigliosa, piena di contraddizioni, stranezze e regole che convivono in un equilibrio armonioso che solo in Giappone sembra poter esistere. Come ogni avventura, anche la nostra ha una fine e questa volta non c'è bisogno di nessuna sveglia perché siamo entrambi con gli occhi aperti consci che si debba partire.
Ma attenzione, non prima di completare la missione finale: la valigia di Pikachu. Francesca ha deciso che senza questo trofeo non possiamo lasciare Osaka. Ci rechiamo di nuovo al Don Quijote (il negozio attorno al quale gira la ruota panoramica di Dotonbori), il tempio giapponese del consumismo compulsivo. Entriamo e ammetto che la seconda visita è meno sconvolgente della prima, ma resta quel piccolo dettaglio che mi disturba: chi è il genio che ha pensato di piazzare il reparto sex toys esattamente accanto a quello degli onigiri? Non indaghiamo oltre.
Dopo un pellegrinaggio tra scaffali stipati e corridoi stretti, eccola: sempre lei, sgargiante come una Lamborghini, con stampata la faccia del topo elettrico più amato del pianeta. Francesca sorride come una bambina a Natale. Io so che quella valigia diventerà il simbolo del viaggio.
Rientriamo in hotel e mettiamo subito in pratica la nostra abilità con il Tetris: il vecchio trolley infilato dentro il nuovo. Gli spazi vuoti vengono riempiti con i vestiti, tecnica già ampiamente testata in Portogallo quando Francesca riuscì a contrabbandare quattro bottiglie di vino tra mutande e calzini. Funzionò allora, funzionerà anche oggi.
Valigie e zaini fatti: si può partire.
Il trenino che ci porta al Kansai Airport attraversa improvvisamente il mare su un ponte sospeso, che collega la sua isola artificiale a Osaka. Una prospettiva surreale: acqua a perdita d’occhio che ci dà un senso di partenza imminente. Per pranzo ci concediamo un’ultima invenzione nipponica: gli onigiri-burger. Due blocchi di riso al posto del pane, ripieni a sorpresa. Francesca, che ormai è diventata una cacciatrice seriale di opzioni gluten free, li addenta con la voracità di un alligatore nel Nilo. Soddisfatta, mi guarda come per dire: “Ce l’abbiamo fatta, sopravvissuti anche al glutine giapponese.” (io continuo a tenermi il sacchetto in tasca per sicurezza...).
L’aereo è della compagnia Scoot, la low cost di Singapore. “Low cost” solo di nome: invece delle tendine, i finestrini hanno pulsanti elettronici che regolano l’opacità, da trasparente a buio totale. Ci sediamo ai posti vicino alla porta, con tutta la fila per noi. Piccole soddisfazioni che rendono più dolce la partenza. Il volo ci regala una panoramica incredibile: l’arcipelago che si allontana, Okinawa come una macchia verde nel blu dell’oceano, e poi l’immensità del Pacifico e un tramonto con falce di luna degno dei migliori film.
Dopo qualche ora, nella notte, atterriamo a Singapore. Nonostante la stanchezza riusciamo a raggiungere il nostro hotel a Chinatown. La vista dal 15° piano è un mosaico di luci, grattacieli e lanterne rosse: un nuovo mondo ci accoglie.
Il giorno dopo non c’è sveglia che tenga. Per la prima volta da settimane ci concediamo il lusso di dormire un po’ di più. La destinazione è Marina Bay, il cuore pulsante della Singapore moderna, quella che vedi in tutte le foto con il celebre hotel a forma di nave appoggiata su tre torri.
La passeggiata verso il complesso è un misto di lusso e ordine maniacale. Sembra un Serravalle Outlet ripulito, lucidato e ingigantito. Entriamo in una delle due enormi serre bioclimatiche dei Gardens by the Bay, aspettandoci orchidee rare e piante esotiche. E invece, sorpresa: ci accoglie un T-Rex. Sì, proprio un dinosauro a grandezza naturale che si muove e ruggisce. A quanto pare hanno unito il microclima della foresta tropicale con pupazzi meccanici in onore di Jurassic Park. È kitsch all’ennesima potenza, ma vedendo i bambini urlare di gioia, non puoi che sorridere.
Nel frattempo decidiamo di rimandare a domani sera la salita all’observation deck della Marina Bay Sands: prenderemo un cocktail in piedi, noi comuni mortali, visto che per sedersi su un divanetto bisogna avere il portafoglio di un petroliere. Il pomeriggio scorre sereno. Ci perdiamo tra le stradine di Chinatown, un quartiere dove grattacieli moderni si alternano a case basse dai tetti rossi, in un mix che ti fa sentire sospeso tra passato e futuro.
La serata ci riporta inevitabilmente alla Marina. Quando le luci si accendono, lo spettacolo è ipnotico: fontane danzanti, fasci di laser che tagliano il cielo e musica che rimbomba tra i grattacieli. Una moltitudine di persone condividono lo stesso stupore e qualcuno alla fine applaude (saranno Italiani). È diverso dalla spiritualità di Koyasan o dalla poesia del Fuji (ndF Aiutami a dirlo...), ma ha comunque un certo proprio fascino, una specie di grosso club Med.
Domani mattina è prevista la sveglia presto... per accaparrarsi uno dei sei lettini a bordo piscina del 16° piano. Francesca è già sui blocchi di partenza: cosa non si fa per un po' di tintarella!



































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